La benedizione degli animali nel giorno di S. Antonio abate

PARROCCHIA SS. REDENTORE - MONSERRATO

Nel giorno dedicato a Sant'Antonio abate (17 gennaio) si è rinnovata l'antichissima tradizione della benedizione degli animali domestici. Al termine della messa vespertina, nel sagrato della parrocchia, don Sergio, intorno ad un falò, ha benedetto gli animali qui condotti da bambini ed adulti.
La tradizione di benedire gli animali nasce nel Medioevo in terra tedesca, quando era consuetudine che ogni villaggio allevasse un maiale da destinare all'ospedale, dove prestavano il loro servizio i monaci di sant'Antonio. La vita di Sant'Antonio Abate è ampiamente documentata, e suoi contemporanei hanno scritto di guarigioni da lui compiute per alleviare le sofferenze di malati. Invece la tradizione che lo ha voluto patrono degli animali domestici trae origine dal fatto che i monaci del suo ordine ottennero il permesso di allevare maiali in città per ricavarne unguenti per la pelle: il grasso di questi animali veniva usato per ungere gli ammalati colpiti dal fuoco di Sant'Antonio (sfogo pruriginoso della pelle simile alla varicella). I maiali erano nutriti a spese della comunità e circolavano liberamente nel paese con al collo una campanella. Si usa anche accendere dei falò che hanno funzione purificatrice e fecondatrice, come di fatti è simbolo il fuoco, che segna il passaggio dall'inverno e dalle giornate più buie verso la primavera.

Antonio nacque a Coma in Egitto intorno al 251, figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent'anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, sentì ben presto di dover seguire l'esortazione evangelica "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri" (Mt 19,21). Così, distribuiti i beni ai poveri e affidata la sorella ad una comunità femminile, seguì la vita solitaria vivendo in preghiera, povertà e castità.
Si racconta che ebbe una visione in cui un eremita come lui riempiva la giornata dividendo il tempo tra preghiera e l'intreccio di una corda. Da questo dedusse che, oltre alla preghiera, ci si doveva dedicare a un'attività concreta. Così ispirato condusse da solo una vita ritirata, dove i frutti del suo lavoro gli servivano per procurarsi il cibo e per fare carità.

In seguito Antonio si spostò verso il Mar Rosso sul monte Pispir dove esisteva una fortezza romana abbandonata, con una fonte di acqua. Era il 285 e rimase in questo luogo per 20 anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva calato due volte all'anno. In questo luogo egli proseguì la sua ricerca di totale purificazione, pur essendo aspramente tormentato, secondo la leggenda, dal demonio. Con il tempo molte persone vollero stare vicino a lui e, abbattute le mura del fortino, liberarono Antonio dal suo rifugio. Antonio allora si dedicò a lenire i sofferenti operando, secondo tradizione, "guarigioni" e "liberazioni dal demonio". Nel 311, durante la persecuzione dell'Imperatore Massimino, Antonio tornò ad Alessandria per sostenere e confortare i cristiani perseguitati. In quella occasione il suo amico Atanasio scrisse una lettera all'imperatore Costantino I per intercedere nei suoi confronti. Tornata la pace, pur restando sempre in contatto con Atanasio e sostenendolo nella lotta contro l'Arianesimo, visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide dove pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, morì, a circa 106 anni.

aaaaaaaaaaaaiii